Nel 1856 fu chiesto a un giovane chimico
francese, Louis Pasteur, di trovare un modo per evitare l’inacidimento di
grandi quantità di vino, cosa che generalmente avveniva durante la
fermentazione del mosto. Il problema era delicato, quintali di vino venivano
buttati ogni anno senza che nessuno fosse in grado di scoprirne la causa. E
questa volta non c’era l’esperienza dei contadini turchi o di chissà chi altri a consigliare il da farsi!
Tutto ciò che si sapeva era che per trasformare il mosto in vino bisognava
aggiungere nelle botti un particolare lievito. Eppure, senza apparente motivo,
alcune botti davano il vino buono e altre dell’orribile aceto. Perché?
Pasteur, che era un chimico, a
differenza della maggior parte dei medici dell’epoca, aveva una certa
familiarità con il metodo sperimentale. Si mise quindi a studiare quel lievito
da scienziato, con microscopio e provette. Scoprì così con sua grande sorpresa
che si trattava di una sostanza animata: in altre parole il lievito era
composto da “ animaletti” che” digerivano” il mosto e lo trasformavano in vino.
Non solo: nel vino buono gli animaletti avevano forma rotondeggiante, mentre in
quello andato a male erano più allungati. Pasteur fece due più due e concluse
che quegli “animaletti” dalla forma allungata erano i responsabili
dell’inacidimento del vino. Provando e riprovando- quindi con metodo
scientifico- riuscì a trovare il modo per distruggerli senza nuocere quelli “
buoni”, bastava riscaldare il mosto alla
giusta temperatura. Il problema dell’inacidimento del mosto era definitivamente
risolto, con grande sollievo per i produttori di vino. Quel processo venne
chiamato in suo onore ” pastorizzazione”: oggi non è quasi più utilizzato per il vino in
quanto si usano altre tecniche microbiologiche di controllo, mentre per il
latte resta una operazione fondamentale.
Bruno Chiavazzo giornalista
Nessun commento:
Posta un commento