La struttura molecolare della pianta è un
argomento di ricerca di grande interesse.
Lo affermano due progetti differenti,
accomunati però dallo stesso obiettivo: dimostrare l’importanza di questo ambito
anche per i vini di domani_Cominciamo con un’analisi del Cra-Vit
coordinata dal professor Calò sulla biodiversità_Proseguiamo con gli
studi del Gruppo Tecnico Masi sui geni della Corvina e di altre varietà in fase
di appassimento per comprendere quale sia la più adatta all’Amarone
Con un “piccolo gruppo di lavoro”, nell’ambito del
Cra-Vit (scusate le sigle, ma di altro non si tratta che dell’ex Istituto
sperimentale per la Viticoltura con sede a Conegliano, Treviso), abbiamo affrontato
da tempo il problema della sicura distinzione e caratterizzazione dei vitigni.
Siamo partiti con approfondimenti ampelografici; siamo passati a
misure ampelometriche fino a registrazioni col
computer di silhouette della foglia tipo; abbiamo saggiato il valore degli isoenzimi, per
approdare, naturalmente, all’analisi del Dna con i microsatelliti. Fate poco
caso ai termini specifici, si tratta d’analisi ormai consolidate, che non
possono essere nominate diversamente e che danno informazioni sicure. A un
certo punto, constatato che la distinzione fra vitigni era diventata routinaria,
abbiamo spostato l’attenzione sulla possibilità di scrutare la variabilità
all’interno delle popolazioni varietali e ciò, come vari altri colleghi, per
vedere di distinguere i diversi biotipi, alias cloni.
È
qui, allora, che entra in gioco il piccolo gruppo, formato da Angelo
Costacurta, Giacomo Morreale, Stefano Meneghetti e da chi scrive. Il problema era,
come vi dicevo, evidenziare con il Dna sicure differenze fra cloni, dal momento
che molti ottimi tentativi di altri colleghi non sempre apparivano sicuri.
Una
strategia analitica messa a punto da Stefano Meneghetti, viceversa, dimostrava ottima,
costante, precisa affidabilità.
Con
questo metodo abbiamo cominciato a indagare all’interno della variabilità di
alcuni vitigni. E se gli esperimenti erano nuovi, nuovo non era il concetto di
queste varianti.
Infatti,
l’osservazione delle differenze di tipi all’interno della stessa varietà ha un
passato piuttosto remoto, anche se poco conosciuto. Basta consultare il Trattato
di Agricoltura di Columella, nell’ottima traduzione di Rosa Calzecchi Onesti
per Einaudi, e andare al libro III, 9- 1 per leggere:
“Per
quanto la natura abbia voluto che alcune varietà
fossero particolarmente feraci, come la biturica e la
basilisca, non può aver reso l’aminnea così sterile che
su molte migliaia di piante di tale varietà non ve ne
abbia essere alcuna buona produttrice... questo ragionamento è
perfettamente verosimile, ma l’esperienza mi ha dimostrato che è
anche vero”.
Badate, questa percezione non
è soltanto lontana nel tempo; implica anche sensazioni che penetrano nella
mente e nella
sensibilità
umana. Siamo convinti che i viticoltori abbiano seguito nei millenni innate e
personali sensazioni per scegliere e selezionare i biotipi (come lichiamiamo
oggi) adatti alle coltivazioni e non solo utilizzando la vista, ma soppesandoli
anche con la mente e con l’istinto. Molti esempi, anche attuali, ce lo
dimostrano.
Permettetemi
di fare un nome per tutti: quello di Ruggero Forti che abbiamo visto dialogare
con le piante.
Le
analisi tecniche e statistiche, dopo e sovente, confermavano le sue scelte. Ora
sappiamo che l’eterogeneità, all’interno dei vitigni, può essere dovuta a mutazioni
e ad altre cause; sta di fatto che, per quella che chiamiamo
Selezione
clonale, abbiamo sfruttato queste diversità, rischiando anche di impoverire una
variabilità base essenziale di un insostituibile equilibrio con l’ambiente. E
lo vedremo.
Per
tornare, comunque, al nostro filo conduttore, prima una
precisazione: quando utilizzo il termine ambiente non intendo le sole
caratteristiche del clima e terreni, piuttosto un complesso di situazioni più
generali nelle quali anche l’uomo con le
sue azioni e la sua cultura ha un peso. Ciò chiarito, ricordo ancora che i
progressi delle analisi genetiche ci hanno permesso di notare sicure differenze
fra vitigni, ma difficilmente siamo scesi a livello subvarietale e questa
eventuale variabilità genetica, pur essendo componente fondamentale, è rimasta
con una sua natura in parte sconosciuta. I nostri esperimenti, come sopra
accennato, e le nostre analisi su diversi vitigni cominciano invece, ora, a
chiarire alcune affascinanti realtà. Abbiamo constatato in modo evidente che i
cloni possono essere ben distinti fra loro. Ma questo, che era lo scopo del
lavoro, è diventato l’aspetto meno attraente, perché a una attenta lettura dei
dati abbiamo trovato un interessantissimo legame fra i biotipi e la loro zona
di origine. Seguitemi. In un primo lavoro, pubblicato su Molecular Biotechnology, abbiamo analizzato diversi
biotipi, coltivati in vari Paesi, della Garnacha spagnola che è denominata
Grenache in Francia e
in Italia Alicante e Gamay perugino al Centro, Cannonau in Sardegna e Tocai rosso a Vicenza. Con le analisi tradizionali del Dna sono risultati, come è giusto, il medesimo vitigno.
Con le nostre indagini (strategia Meneghetti), invece, abbiamo distinto i tipi
spagnoli da quelli francesi e italiani. Non solo: fra quelli italiani abbiamo
differenziato quelli del Centro, della Sardegna e di Vicenza. Di più: fra
quelli della Sardegna abbiamo potuto separare quelli di Cagliari da quelli di
Jerzu. In un altro esperimento, i cui risultati sono in pubblicazione sempre su
Molecular Biotechnology, abbiamo confrontato i biotipi di Malvasia nera di Lecce e di
Brindisi che ora sono considerati (e lo sono) un medesimo vitigno. Anche in questo
caso quelli raccolti in provincia di Lecce si sono distinti, per il Dna, da
quelli raccolti in provincia di Brindisi. Abbiamo poi analizzato diversi cloni
di Negroamaro e si sono differenziati addirittura per i Paesi nei quali erano
stati reperiti; con l’unico selezionato in collina (a Ceglie Messapica) risultato
il più geneticamente distante fra tutti. Ancora, abbiamo saggiato i nostri
cloni di Primitivo. Qui il discorso è leggermente più lungo. Da tempo avevamo individuato
nella zona di Gioia
del Colle (culla di questo vitigno), con l’aiuto di Gian Vito
Masi, cinque biotipi dalle caratteristiche morfologiche diverse. Li abbiamo di
seguito collocati nella stessa azienda dell’Isv a Turi, dove hanno mantenuto e
confermato tali individualità. Infine li abbiamo sottoposti all’analisi del
Dna, di cui parliamo, in paragone con il Primitivo tipico della zona litoranea
jonica e con lo Zinfandel californiano (che sappiamo è sempre Primitivo). Ebbene, ancora una volta,
si sono distinti per zona di provenienza e in maniera più netta rispetto alle
pur evidenti diversità morfologiche. Le tipologie di Primitivo individuate nell’areale
sudorientale della Puglia sono: grappolo bifido, lungo, medio-compatto, acino medio
grande; grappolo bifido, lungo, mediamente spargolo, acino medio piccolo; grappolo
cilindrico, a volte alato, mediamente corto, con acino medio-piccolo; grappolo
cilindrico, con piccola ala, mediamente lungo, medio compatto, acino medio;
grappolo cilindrico, a volte alato, corto, acino medio, buccia molto colorata,
precoce, con maggior accumulo glucidico. Avevamo sotto analisi anche una serie
di cloni di Malvasia istriana, i cui risultati sono in pubblicazione, e qui le distinzioni sono
avvenute per costitutore.
Dal momento, però, che ogni costitutore aveva operato in un
ambiente diverso (Friuli, Venezia Giulia, Istria) la distinzione, in fondo, è
risultata sempre per ambienti.
Molti altri vitigni sono in osservazione, ma i dati finora ottenuti
ci autorizzano a sottolineare una vera marcatura del Dna rispetto all’ambiente.
Davvero una porta che si apre alla lettura scientifica, ricca di ricadute
pratiche. Gli studi futuri ci potranno dare ulteriori verità e, forse, sorprese
e farci conoscere se e come differenti ambienti possano modificare il Dna. Ora
desidero, con i miei colleghi, sottolineare la variabilità accumulata in centinaia
o migliaia di anni di coltivazione e selezione dello stesso vitigno in diversi
siti, con il concorso dei viticoltori. E, allora, la sensibilità, prima
ricordata, torna in gioco.
Come se effettivamente fra viticoltore e varianti dei vitigni, non
sempre facilmente percepibili ma scritte nel Dna, si sia stabilito un dialogo
che dona un senso e un valore scientifico
al concetto di tipicità: importante da seguire, dalla moltiplicazione dei
vitigni, fino alla loro coltivazione e vinificazione delle uve. Tipicità che
sarebbe dannatamente grave perdere in un sistema assolutamente particolare, unico
e sensibile come quello della vite e del vino. Per comprendere ciò,
consiglierei la lettura di Bevo dunque sono del filosofo inglese Roger Scruton. Meditiamo il seguente passo:
“Io ho imparato da Michelangelo il pathos
dell’amore materno e la divinità della sofferenza; ho imparato
da Mozart la speranza che trasforma la tristezza più cupa
in gioia; ho imparato da Dostoevskij il perdono che purifica
l’anima. Questi doni della comprensione mi sono stati
dati dall’arte; ma quello che ho imparato dal vino è emerso
dal mio intimo, il vino è stato il catalizzatore, anche se non
la causa di ciò che ho appreso”.
Leggetelo e vi accorgerete di quanto il pensiero sia coinvolto
nella considerazione e rapporto col vino.
Antonio Calò
Presidente dell’Accademia italiana della Vite e del Vino